L’acqua fredda potrebbe contribuire alla cura della demenza?

Per la prima volta al mondo, una proteina da shock termico è stata trovata nel sangue di nuotatori invernali al Parliament Hill Lido a Londra. La proteina ha dimostrato di rallentare l’insorgenza della demenza e persino di riparare alcuni dei danni che provoca.

La professoressa Giovanna Mallucci, che gestisce il Centro del Regno Unito di ricerca sulla demenza presso l’Università di Cambridge, afferma che la scoperta potrebbe indirizzare i ricercatori verso nuovi trattamenti farmacologici che potrebbero aiutare a tenere a bada la demenza. La ricerca, sebbene promettente, è in una fase iniziale e si concentra sulla capacità di ibernazione che tutti i mammiferi conoscono, che è stimolata dall’esposizione al freddo.

Ciò che ha incuriosito la professoressa Mallucci è stato il fatto che le connessioni cerebrali si perdono quando animali come orsi, ricci e pipistrelli vanno in letargo. Circa il 20-30% delle loro sinapsi vengono “spente” affinché i loro corpi preservino risorse preziose per l’inverno. Ma quando si svegliano in primavera, quelle connessioni sono miracolosamente riformate.

I medici sanno da decenni che raffreddare le persone può, in determinate circostanze, proteggere il cervello. Le persone con lesioni alla testa e coloro che necessitano di operazioni cardiache sono spesso raffreddate durante l’intervento. Ciò che non è stato compreso così bene è stato il motivo per cui il freddo ha questo effetto protettivo. Il freddo ha un potente effetto sul corpo umano. Lo shock di entrare in acqua fredda provoca un drammatico aumento della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna, che può causare attacchi di cuore e ictus in quelli con malattie sottostanti.

Il legame con la demenza risiede nella distruzione e nella creazione di sinapsi, le connessioni tra le cellule del cervello. Nelle prime fasi dell’Alzheimer e di altre malattie neurodegenerative, queste connessioni cerebrali vengono perse. Ciò causa sintomi associati alla demenza – tra cui perdita di memoria, confusione e sbalzi d’umore – e, col tempo, alla morte di intere cellule cerebrali.

La sfida ora è trovare un farmaco che stimoli la produzione della proteina negli esseri umani e – cosa ancora più importante – dimostrare che aiuti davvero a ritardare la demenza.

La demenza è prevalentemente una malattia degli anziani, quindi anche un ritardo relativamente breve nell’insorgenza della malattia potrebbe avere enormi benefici per gli individui e per la popolazione in generale. “Se si rallenta il progresso della demenza anche di un paio d’anni su un’intera popolazione, si otterrebbe un enorme impatto economico e sanitario” conclude  la professoressa Mallucci.

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