NON esiste uno screening e i sintomi sono spesso aspecifici: gonfiore addominale, dolore pelvico, bisogno frequente di urinare, inappetenza. Per questo riconoscere un carcinoma ovarico in fase iniziale non è semplice e la prevenzione e l’informazione giocano un ruolo fondamentale.
L’avvento negli ultimi anni dei PARP inibitori ha cambiato il paradigma terapeutico del carcinoma ovarico e di conseguenza le prospettive e la qualità di vita delle pazienti. Una piccola rivoluzione che oggi fa registrare un ulteriore decisivo passo in avanti.
Uno di questi è niraparib, disponibile in Italia per il trattamento di mantenimento in prima linea in monoterapia per le pazienti con carcinoma ovarico epiteliale di alto grado avanzato (FIGO Stadio III e IV), alle tube di Falloppio o peritoneale primario, in risposta completa o parziale dopo chemioterapia a base di sali di platino.
Si tratta di un farmaco indicato come trattamento di mantenimento in prima linea per tutte le pazienti, indipendentemente dal loro stato mutazionale. A poter beneficiare di niraparib non sono quindi solo le pazienti con carcinoma ovarico BRCA mutato (BRCAm) – circa una su quattro tra quelle in stadio avanzato – ma anche le pazienti prive di mutazione BRCA (circa tre su quattro). Inoltre, nel caso delle pazienti BRCA mutate, la disponibilità di niraparib offre all’oncologo l’opportunità di scegliere il PARP inibitore più appropriato sulla base delle caratteristiche di ogni singola paziente.
“Il vantaggio aggiuntivo per le pazienti – spiega la prof. Domenica Lorusso, associato di ginecologia e ostetricia all’Universita’ Cattolica del Sacro Cuore di Roma e responsabile della ricerca clinica alla Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS – consiste nella monosomministrazione orale a domicilio, che ben si concilia con il ritorno ad una vita il più possibile vicina alla normalità al termine della chemioterapia. Oggi – prosegue Lorusso – non è più ammissibile che una paziente con carcinoma ovarico di nuova diagnosi non riceva alcuna terapia di mantenimento al termine della chemioterapia”.
L’indicazione degli esperti e delle stesse linee guida è di effettuare il test BRCA già al momento della diagnosi, perché il risultato del test ha sia un’implicazione terapeutica sia un valore prognostico: le pazienti con mutazione BRCA hanno una prognosi migliore e rispondono meglio in generale a specifici trattamenti. Effettuare il test ha inoltre un valore preventivo, visto che le donne con la mutazione presentano un maggiore rischio di sviluppare anche altri tumori.
Lo sottolinea con forza la prof. Lorusso: “Anche in presenza di PARP inibitori come niraparib, che possono essere prescritti indipendentemente dalla mutazione di BRCA perché hanno dimostrato efficacia in tutte le pazienti, il test per il BRC deve essere effettuato in tutte le donne con carcinoma ovarico già alla diagnosi di malattia”.