Colpisce tra 0,4 e 6 casi ogni milione di abitanti e si stima che in Italia ci siano 800 pazienti, di cui 150 bambini. È la sindrome dell’intestino corto (Sbs), una patologia rara che costituisce la causa principale dell’insufficienza intestinale cronica benigna, una condizione in cui l’intestino non riesce più ad assorbire nutrienti in maniera sufficiente.
“Nonostante la patologia sia stata inserita nel registro europeo delle malattie rare, questo riconoscimento non è ancora stato recepito da servizio sanitario italiano, con l’unica eccezione della Regione Piemonte”, ha spiegato Sergio Felicioni, presidente dell’associazione “Un filo per la vita” durante la virtual media academy dedicata ai giornalisti e organizzata da Takeda, azienda farmaceutica specializzata in patologie gastrointestinali.
Il mancato riconoscimento di malattia rara può sembrare una formalità, ma non è così: “Significa non avere percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali codificati e strutturati sull’intero territorio nazionale – ha ricordato Felicioni – Inoltre, a parte in Piemonte, i pazienti devono pagare i farmaci di tasca propria e non viene loro riconosciuta l’invalidità o l’indennità di accompagnamento. La sindrome dell’intestino corto è una malattia invalidante e, quando colpisce i bambini, spesso un genitore deve smettere di lavorare per seguire il proprio figlio”.
La gestione è complicata
La rarità della patologia e il fatto che manchino reti di presa in carico comporta spesso un ritardo nella diagnosi: un professionista può vedere un caso solo nella vita. “Se la Sbs con insufficienza intestinale non viene riconosciuta tempestivamente e curata al meglio, il paziente può sviluppare malnutrizione di grado severo e disidratazione con sofferenza renale, rischiando così di avere due insufficienze d’organo, quella intestinale e quella renale – ha spiegato Loris Pironi, direttore del Centro regionale per l’Insufficienza intestinale cronica, Irccs Policlinico di S. Orsola, Università di Bologna – La nutrizione parenterale – poi – deve essere attentamente gestita perché, pur essendo la terapia salvavita, può esporre il paziente a complicanze come infezioni gravi del catetere ed epatopatia cronica evolutiva, quando non erogata accuratamente.”
Nel caso dei pazienti pediatrici la nutrizione parenterale è particolarmente delicata. “A differenza del paziente adulto, infatti, nel bambino la nutrizione artificiale va costantemente rimodulata così da garantire una crescita ottimale, che rappresenta il marker più efficace di adeguatezza del programma nutrizionale impostato”, ha spiegato Antonella Diamanti, responsabile Uos Riabilitazione nutrizionale all’Ospedale Bambino Gesù di Roma.
Sebbene la nutrizione parenterale sia essenziale per la sopravvivenza di questi pazienti, la dipendenza da essa ha un impatto molto rilevante sulla loro qualità di vita: viene somministrata solitamente di notte e ha una durata che varia fra le 10 e le 18 ore. I bambini in nutrizione parenterale hanno una ridotta qualità di vita, difficoltà relazionali ed emotive: tendono ad avere meno amici della media e a partecipare di meno ad attività scolastiche e di svago.
Teduglutide anche per i più piccoli
Oggi però c’è uno strumento in più per favorire lo svezzamento dei pazienti pediatrici o ridurre la dipendenza dalla terapia parenterale: teduglutide, già indicato nel trattamento degli adulti con sindrome dell’intestino corto, un farmaco che ha dimostrato di aumentare le capacità di assorbimento delle cellule epiteliali dell’intestino, valorizzando così la parte di organo residua. Teduglutide mima l’azione del peptide glucagone-simile 2 (Glp-2) fisiologicamente prodotto dall’organismo, stimolando l’adattamento e aumentando la capacità di assorbimento dell’intestino. “Nei pazienti nei quali la dipendenza dalla nutrizione parenterale in termini di volume o calorie è limitata, l’impiego del farmaco ha dimostrato di poter condurre i pazienti all’autonomia intestinale nel corso dei primi sei mesi di terapia”, ha aggiunto Diamanti.