Il Parkinson si legge anche dai disturbi del sonno: predicono il rischio di ammalarsi entro 2 anni

Dimmi come dormi e ti dirò se ti ammalerai di Parkinson: la presenza di specifici disturbi del sonno, in associazione ad altri parametri indicativi di alterazioni del funzionamento cerebrale, ‘predice’ un rischio sei volte maggiore di andare incontro al Parkinson entro breve tempo, appena 2 anni. Lo dimostra per la prima volta uno studio internazionale pubblicato sulla prestigiosa rivista Brain e coordinato da ricercatori dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino – Università di Genova, secondo cui in persone con oltre 70 anni un disturbo comportamentale nel sonno REM (RBD – REM Behavior Disorder), associato a specifici parametri clinici e di neuroimaging, è indice di un rischio quasi sei volte più elevato di sviluppare Parkinson, nei due anni successivi alla diagnosi di RBD. L’incremento della probabilità è netto in chi ha alterazioni nel funzionamento di specifiche aree cerebrali visibili alla SPECT, un esame di neuroimaging smile a una PET, deficit cognitivi e costipazione. In questi pazienti ad altissimo rischio sarà perciò possibile studiare l’effetto di terapie preventive neuroprotettive, da somministrare prima della comparsa dei sintomi per verificare se possano scongiurare lo sviluppo del Parkinson.

Lo studio retrospettivo, condotto in 9 centri in tutto il mondo, ha coinvolto oltre 300 pazienti provenienti dai centri appartenenti all’International RBD study group (IRBDSG) e seguiti per 3 anni. Tutti avevano una diagnosi di RBD confermata con polisonnografia, l’analisi delle caratteristiche del sonno: il disturbo comportamentale del sonno REM è infatti un fattore di rischio già noto per lo sviluppo di patologie in cui vi sia un accumulo di alfa-sinucleina, una proteina che altera la trasmissione di impulsi nervosi, come avviene per esempio per la malattia di Parkinson e per la demenza a corpi di Lewy. Finora, però, non si sapeva calcolare quando potessero insorgere tali patologie dopo una diagnosi di RBD.

“Questo disturbo del sonno si manifesta con un’intensa attività motoria collegata a ciò che si sogna, ad esempio muovere le gambe o agitare le braccia come per volare o difendersi da qualcuno, e provocata dalla perdita della fisiologica atonia muscolare che si ha di norma in fase REM. Durante il sonno REM, infatti, nel quale sono presenti sogni più vividi e strutturati, si resta immobili anche se si sogna e si perde del tutto il tono muscolare volontario – spiega il coordinatore della ricerca Dario Arnaldi, neurologo del Dipartimento di Neuroscienze (DINOGMI) dell’Università di Genova, IRCCS Ospedale Policlinico San Martino – Studiando i pazienti con RBD abbiamo verificato che la presenza di specifiche variabili cliniche e di alterazioni visibili con esami di neuroimaging, può dare indicazioni importanti sulla probabilità di sviluppare la malattia di Parkinson entro un tempo relativamente breve. I dati raccolti hanno infatti evidenziato che nei pazienti con RBD l’associazione di deficit cognitivi, costipazione e alterazione nel funzionamento di specifiche aree cerebrali rilevabili con una SPECT, si legano a un incremento di quasi sei volte, a distanza di due anni della diagnosi di RBD, del rischio di Parkinson e di altre alfa-sinucleinopatie. Queste ultime sono malattie associate al peggioramento neurologico dovuto ad un accumulo della alfa-sinucleina nel sistema nervoso – sottolinea Arnaldi – Siamo però convinti che l’avvio delle terapie avvenga troppo tardi: le alfa-sinucleinopatie sono infatti caratterizzate da una lunga fase prodromica, in cui ci sono già segni di neurodegenerazione ma non sintomi della malattia. Se i farmaci neuroprotettivi fossero somministrati a pazienti che si trovano ancora in questa fase, si potrebbero avere maggiori possibilità di successo terapeutico e questo studio fornisce per la prima volta parametri che permettono di identificare i pazienti ad alto rischio di sviluppare a breve termine un’alfa-sinucleinopatia”.

Flavio Nobili, che ha coordinato il gruppo di ricerca della Clinica Neurologica dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino e del DINOGMI dell’Università di Genova, in collaborazione con Silvia Morbelli, medico nucleare dello stesso Policlinico e della stessa Università e Andrea Chincarini fisico della sezione genovese dell’Istituto nazionale di Fisica Nucleare, aggiunge: “Le informazioni ottenute da questa ricerca perfezionano i criteri di inclusione utilizzati per selezionare i pazienti da sottoporre alle terapie neuroprotettive in fase di sperimentazione. L’affidabilità dei risultati deriva anche dall’elevato numero di pazienti con RBD e di soggetti sani di controllo che si è riusciti a includere, grazie alla partecipazione di molti centri che, nel mondo, lavorano attivamente in questo ambito”. Antonio Uccelli, Direttore Scientifico dell’Ospedale Policlinico San Martino, aggiunge: “La ricerca sta facendo numerosi passi avanti per migliorare le terapie e i trattamenti, anche e soprattutto per patologie così diffuse che però ancora non hanno una cura. Inoltre, questi risultati confermano il giusto riconoscimento che il Policlinico ha ottenuto dal Ministero della Salute nel campo delle neuroscienze, perché grazie a studi come questo sarà possibile aumentare le probabilità di successo terapeutico dei farmaci in sperimentazione”

Total
3
Condivisioni
Articolo Precedente

Rassegna stampa 21 dicembre 2020

Articolo Successivo

Obesità: un trend in continua crescita in italia

Articoli correlati