In uno studio pubblicato Nature Biotechnology, un gruppo di ricercatori dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica (SR-Tiget), guidati da Luigi Naldini, ha mostrato come superare una delle più importanti barriere all’applicazione dell’editing genetico alle cellule staminali ematopoietiche, che al contempo rappresentano un bersaglio fondamentale per la cura di gravi malattie genetiche, come le immunodeficienze primitive.
Forte della decennale esperienza nel campo, i ricercatori dell’SR-Tiget stanno lavorando per rendere l’editing genetico un approccio terapeutico sempre più sicuro e efficace. «Il nostro è un risultato importante nel percorso verso l’applicazione clinica in malattie in cui la terapia genica “tradizionale” non è indicata, perché quello da correggere è un gene “delicato”, coinvolto per esempio nella regolazione della crescita cellulare. In questi casi l’editing genetico offre la possibilità di correggere il gene nella sua sede naturale, mantenendone la regolazione fisiologica, cosa invece impossibile quando il gene terapeutico viene fornito dall’esterno e va a inserirsi casualmente nel genoma. Per alcune patologie questo non è un problema, come dimostrato proprio dai successi terapeutici della terapia genica messa a punto nel nostro istituto, ma in altre può invece risultare rischioso. E la medicina di precisione è proprio questo: disegnare strategie terapeutiche su misura, basandosi su una conoscenza approfondita dei meccanismi biologici e degli ostacoli da superare» commenta Luigi Naldini, direttore dell’SR-Tiget.
L’editing genetico è considerato l’ultima frontiera della medicina di precisione poiché permette di correggere in modo puntuale errori nelle informazioni genetiche nel Dna responsabili di gravi malattie ancora incurabili. «Oggi siamo in grado di guidare questo sistema di riparazione, fornendo alla cellula la versione corretta che vogliamo sia sostituita a quella mutata. Per farlo si utilizza un vettore virale, ovvero un virus reso innocuo ma ancora capace di infettare le cellule e trasferirvi con il proprio carico genetico lo stampo per la correzione. Tuttavia, questo sistema mirato di correzione non lavora al meglio all’interno delle cellule staminali ematopoietiche, che per loro natura sono tendenzialmente quiescenti e una volta avvertito un danno al Dna tendono a non proliferare più o addirittura ad autoeliminarsi. Siamo quindi andati a studiare come stimolarle ed evitare gli effetti collaterali del nostro intervento chirurgico sul materiale genetico» spiegano Samuele Ferrari e Aurelien Jacob, primi autori del lavoro.
Grazie a studi precedenti svolti nell’istituto dal gruppo di Naldini e in collaborazione con il gruppo di Raffaella Di Micco, i ricercatori hanno trovato una delle chiavi per superare l’impatto negativo del taglio del Dna sulle cellule staminali ematopoietiche, agendo su una delle proteine più importanti per la regolazione della proliferazione cellulare (p53). Questa proteina – soprannominata “guardiana del genoma” – agisce come inibitore della crescita cellulare in condizioni patologiche, tanto che un suo malfunzionamento è associato a numerosi tumori. Somministrando alle staminali del sangue un inedito cocktail proteico durante l’editing genetico, i ricercatori sono riusciti a bloccarne temporaneamente l’azione e a migliorare notevolmente l’efficienza del processo correttivo.
«Ma questa non è l’unica innovazione introdotta – continua Pietro Genovese, che ha supervisionato lo studio insieme a Luigi Naldini ed è stato recentemente reclutato dalla Harvard Medical School di Boston. Abbiamo dimostrato che è possibile inserire nel vettore virale, oltre alla sequenza guida per la correzione del Dna, anche una breve sequenza aggiuntiva che funziona come un vero e proprio “codice a barre” per identificare in modo univoco ognuna delle cellule staminali corrette. In questo modo possiamo seguirle nel tempo e verificare che il loro comportamento non sia stato alterato dal trattamento. Questo ci ha permesso di dimostrare non solo l’efficacia dell’editing, ma anche – e per la prima volta – che la procedura è sicura: abbiamo infatti potuto escludere l’insorgenza di cellule potrebbero dare origine a tumori futuri. In altre parole, se associamo ogni codice a barre molecolare a un colore, siamo tranquilli quando vediamo tanti colori diversi: significa che le cellule corrette sono molte. Viceversa, se osserviamo pochi colori o anche solo un colore prevalente, per noi è un campanello di allarme che ci indica un rischio della procedura».