Berlino, 31 ottobre 2016 – Avere livelli di pressione nella norma, i famosi 80-120 mmHg che quasi tutti conoscono, aiuta a prevenire problemi cardiovascolari, infarti e ictus. Ma cosa fare se i livelli sono più alti, anche di poco? Il dibattito è aperto tra i medici, ed è stato recentemente rilanciato da uno nuovo studio, lo SPRINT (Systolic Blood Pressure Intervention Trial) realizzato dal National Heart, Lung and Blood Institute statunitense. Gli americani sono convinti che la pressione elevata vada trattata con aggressività, i medici europei sono più cauti, e il confronto tra le due visioni si è sviluppato anche in occasione del simposio “Bringing Cardiovscular Medicine Center Stage: New Trends Today and Tomorrow”, organizzato dalla Charité University Medicine di Berlino e promosso dalla Fondazione Internazionale Menarini. «Lo studio SPRINT suggerisce che un approccio aggressivo per abbassare la pressione è benefico per ridurre gli eventi cardiovascolari. Vi sono numerose evidenze di come il trattamento antipertensivo si accompagni a una riduzione del rischio cardiovascolare e renale. Lo stesso discorso vale per la riduzione della della pressione per sé, a prescindere da come si ottiene» commenta Giuseppe Mancia, Direttore del Centro di Epidemiologia e Trial Clinici dell’Istituto Auxologico Italiano di Milano. «Nonostante decenni di ricerca, però, le informazioni non sono ancora conclusive su quale dovrebbe essere il valore di pressione da raggiungere con la terapia per massimizzare la protezione renale e cardiovascolare». Secondo lo studio SPRINT, più si abbassa il livello di pressione più si incrementano i benefici per tutte le età, sia grazie a un trattamento farmacologico sia con modifiche allo stile di vita, per esempio con dieta, attività fisica, eliminazione del fumo di sigaretta. «Però alcuni dati dello studio non sono così chiari: per esempio la sola riduzione elevata della pressione non ha effetti benefici sull’ictus mentre sembra ridurre il rischio di ictus se è accompagnata da una terapia antipertensiva, per cui quest’ultima potrebbe amplificare alcuni effetti benefici» aggiunge Mancia. «Si è poi osservato un marcato incremento di effetti collaterali nei pazienti trattati intensivamente, aspetto che al di fuori di uno studio, cioè nella vita reale, potrebbe provocare la discontinuità e la scarsa aderenza al trattamento da parte dei pazienti, con un conseguente incremento di rischio cardiovascolare che può attenuare, se non annullare, ogni teorico beneficio».
I dati dello studio poi non danno indicazioni definitive su come comportarsi con i pazienti che presentano una pressione appena più alta del normale, cioè tra i 121 e i 134 mmHg, quindi in definitiva resta aperto il dibattito per definire quale deve essere il livello di pressione da raggiungere. «Saranno necessari nuovi studi che esplorino in particolare le possibili differenze nel livello ottimale di pressione secondo le caratteristiche demografiche, incluse quelle etniche, e i fenotipi clinici, come la presenza o assenza di danno d’organo, la durata di malattia, le caratteristiche di eventuali eventi cardiocircolatori». Quindi i target di pressione arteriosa raccomandati dovranno essere abbassati per seguire le indicazioni dello studio SPRINT? Alla domanda risponderanno le future linee guida europee e statunitensi, che sono in preparazione. «Le linee guida europee con le indicazioni per il controllo della pressione sono in revisione e saranno pronte nel 2018 e anche gli americani stanno aggiornando le loro linee guida. La mia opinione è che gli americani siano più propensi a seguire le indicazioni dello studio SPRINT, anche perché lo studio è stato realizzato dal National Heart, Lung and Blood Institute, che è un loro ente statale. Gli europei invece guardano ai differenti aspetti dello studio, per cui le due linee guida potrebbero differire». La questione quindi non è così semplice, e il cardiologo oggi deve valutare se dire al paziente che deve abbassare la pressione a 120 mmHg assumendo farmaci ogni giorno e per diversi anni per ridurre il rischio di eventi cardiovascolari, però aumentando il rischio di effetti collaterali. Una indicazione che spesso il paziente inizia ma poi non segue. «Abbiamo farmaci efficaci, ma i pazienti non li usano. La pressione è sotto controllo solo in un paziente su tre. A volte un trattamento non funziona perché il paziente non lo assume. Il primo intervento da fare riguarda quindi la corretta informazione ai pazienti, per ridurre il rischio di infarti, ictus e altri eventi cardiovascolari» conclude Mancia.
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