Le stime, non supportate da concreti studi scientifici, secondo cui il 6% della popolazione soffrirebbe di sensibilità al glutine non-celiaca hanno portato a confondere la celiachia, una reale patologia su base autoimmune, con una “moda” alimentare. Anche per questo l’Europa ha appena “declassato” i celiaci dai gruppi di consumatori le cui esigenze nutrizionali debbano essere particolarmente tutelate e così AIC avverte: è pericoloso sottoporsi a diete di esclusione fai da te perché i veri casi di celiachia potrebbero restare senza diagnosi, esponendosi a rischi. Moltissimi i soldi spesi inutilmente dagli italiani per acquistare cibi senza glutine di cui non avrebbero bisogno: ogni anno in Italia si spendono 250 mln euro per prodotti senza glutine, ma solo 180-190 mln sono quelli erogati gratuitamente dal Servizio Sanitario Nazionale per i pazienti con celiachia diagnosticata.
“La celiachia non è una moda ma una vera malattia autoimmune, con precisi criteri diagnostici – dichiara Elisabetta Tosi, Presidente Associazione Italiana Celiachia (AIC) – Stiamo assistendo invece al tentativo di far passare la dieta senza glutine come un’alimentazione “buona per tutti”, più sana e leggera, addirittura dimagrante. Banalizzare la dieta senza glutine a dieta “di moda” ha portato l’Europa a non riconoscere più le esigenze nutrizionali dei celiaci: l’11 giugno scorso il Parlamento Europeo ha definitivamente approvato il nuovo Regolamento sui prodotti destinati ad alcune categorie vulnerabili della popolazione, che comprendono i lattanti, i bambini nella prima infanzia, chi ha bisogno di alimenti per i cosiddetti “fini medici speciali” e perfino chi deve perdere peso, ma non i celiaci. Per di più questo ritenere la sensibilità al glutine una sorta di “patologia di massa” spinge anche molti ristoratori a improvvisarsi cuochi “gluten free”, senza le necessarie conoscenze e competenze: questo sta mettendo a rischio la salute dei veri celiaci, per i quali una dieta senza glutine è l’unica terapia”.
Secondo alcuni la sensibilità al glutine sarebbe presente nel 6% della popolazione, ma non si tratta di stime realistiche perché i numeri derivano da studi condotti su pazienti di ambulatori gastroenterologici, per cui “selezionati” e non rappresentativi della popolazione generale. Secondo AIC, numeri così elevati hanno portato a un clamore mediatico che spinge molti a scorrette autodiagnosi di intolleranza al glutine, imponendosi poi una dieta specifica e inutilmente costosa: per un prodotto per celiaci, infatti, si spende in media da due a tre volte di più rispetto all’analogo con glutine. Così ogni anno in Italia si spendono 250 milioni di euro per prodotti senza glutine, ma solo 180-190 milioni sono quelli erogati gratuitamente dal Servizio Sanitario Nazionale per i pazienti con celiachia diagnosticata. “La sensibilità al glutine non-celiaca è una sindrome caratterizzata da molteplici sintomi correlati al consumo di glutine, ma tuttora la sua esistenza non è stata scientificamente dimostrata né accettata dall’intera comunità scientifica – spiega Gino Roberto Corazza, presidente Società Italiana Medicina Interna (SIMI) e professore Ordinario di Medicina Interna all’Università di Pavia -. Gli studi finora pubblicati sono scarsi e con molti punti deboli; inoltre, a differenza della celiachia non vi sono alterazioni nel sangue né lesioni intestinali, nonostante il paziente riferisca sintomi quando consuma glutine e dica di stare meglio escludendolo. La diagnosi perciò è complessa: non abbiamo test sicuri, non esiste un protocollo definito e per ciò che riguarda la dipendenza dei sintomi dal consumo di glutine dobbiamo fidarci di quanto afferma il paziente, ponendo la diagnosi per esclusione una volta accertata l’assenza di celiachia e allergia al grano. Di conseguenza, la sensibilità al glutine deve essere gestita da medici specificamente competenti”. Di contro, sappiamo che in Italia ci sono circa 465.000 celiaci che non sanno ancora di esserlo. “Per loro l’alimentazione fai da te senza glutine è ancora più rischiosa, perché mettendosi a dieta non potranno più essere diagnosticati, a meno che non ricomincino ad assumere glutine – sottolinea Tosi – La diagnosi di celiachia si basa infatti sull’evidenza dell’appiattimento dei villi intestinali, verificata tramite una biopsia intestinale e provocata proprio dall’assunzione di glutine: una volta a dieta, a meno che la diagnosi non sia stata troppo tardiva, il celiaco recupera in qualche mese un perfetto stato di salute e i villi appaiono di nuovo normali. Mettersi a dieta prima degli accertamenti necessari perciò comporta l’impossibilità di arrivare alla diagnosi: non si potrà sapere con certezza di quale patologia si soffre né accedere al buono mensile di sostegno per l’acquisto di prodotti senza glutine da parte del SSN”.